Prefazione a “Meditazioni futuriste sul volo spaziale” di Giulio Prisco

Vuole la leggenda che giusto ottant’anni fa, a Peenemünde, lo staff di Wernher von Braun, stressato dalle pressanti richieste dell’instancabile animatore del programma V2 più ancora che dalle declinanti sorti della guerra per la Germania, minacciasse scherzosamente di quando in quando di usare un razzo per “scappare a Londra”, e che von Braun regolarmente rispondesse “io non mi muovo da qui, non voglio andare a Londra, voglio andare sulla Luna”.

Se il suo sogno, concepito da adolescente leggendo Die Rakete zu den Planetenräumen di Hermann Oberth o guardando il film Frau im Mond di Fritz Lang finirà attraverso percorsi imprevedibili per realizzarsi, ancora qualche generazione dopo, e dopo lo sclerotizzarsi in questo come in altri campi dello slancio tecnoscientifico, esplorativo, rivoluzionario del periodo a cavallo dei due secoli scorsi, il “mal di spazio” in molti di noi resta vivace. E per alcuni, che all’epoca del “piccolo passo” di Armstrong avevano l’età almeno per vedere la diretta televisiva ad esso dedicata l’episodio resta scolpito nella memoria come un momento seminale e indimenticabile.

È bensì vero che mentre all’epoca delle missioni Apollo sulla base della tecnologia dell’epoca era stato considerato un traguardo realistico, e ci era stato promesso, uno sbarco umano su Marte nel 1982, come nota Guillaume Faye proprio all’inizio degli anni ottanta il cittadino di un mondo prosaico ed omologato si è ritrovato invece a partire verso le stelle sugli incrociatori spaziali sempre più perfezionati e mirabolanti creati dai produttori… di videogame e di film di fantascienza.

Ma il prometeismo, il futurismo, lo spirito faustiano cui ho dedicato uno dei miei ultimi libri,  I sentieri della tecnica, malgrado tutto finiscono per riemergere costantemente al di là delle rimozioni, delle rinunce, dei proibizionismi e delle maledizioni morali che su di esso si abbattono, e coinvolgono personaggi di formazione, interessi e background largamente diversi. E nulla come la sfida di Icaro e di Gazurmah – il figlio del marinettiano Mafarka in viaggio verso il sole –, sfida cui corrisponde in termini concreti l’esplorazione e l’espansione nello spazio, incarna tale ideale, declinabile a piacere sotto gli angoli della crescita, della sopravvivenza, della prosperità, della potenza e della conoscenza. La stessa onnipresenza di questa tematica nella fiction – che si giova del vero se non unico progresso che si è verificato nel frattempo, ossia quello che coinvolge informatica e telecomunicazioni – resta eloquente al riguardo.

D’altronde, se nella storia recente e nel mondo contemporaneo troviamo intellettuali, romanzieri o giuristi che aderiscono con convinzione all’etica collettiva del superamento di sé, esistono altrettanti ricercatori, scienziati, ingegneri che a livello ideologico sono neoludditi e tecnofobi rabbiosi.

Giulio Prisco rappresenta invece la felice combinazione di un true believer, e di un agitatore culturale transumanista di grande influenza, con qualcuno che ha studiato e lavorato anche personalmente sulle cose di cui parla, incluso nel corso della sua passata attività per varie agenzie spaziali, quantunque in un clima e in un’epoca ben diversi da quelli incandescenti degli anni sessanta inaugurati dalla impresa eroica di Yuri Gagarin come primo cosmonauta della storia. 

Questo, insieme ad un aggiornamento costante sul dibattito tecnologico, politico, economico, culturale, etc., riguardante gli sviluppi in campo spaziale, ha posto l’autore nella posizione ideale e più autorevole per scrivere questo pamphlet, appassionato quanto informativo e persuasivo, che disegna un arco che va dall’attualità immediata alle ipotesi ed aspirazioni più remote.

Prisco vive e lavora, come del resto chi scrive, nel mondo occidentale, ha scritto la versione originale del presente testo in inglese, e si rivolge essenzialmente alle principali correnti mainstream di tale mondo, dai conservatori ai liberal, dai “verdi” ai libertari ai monoteisti di varia estrazione, con le cui ortodossie personalmente ho talora meno pazienza di lui. In questo senso, le sue argomentazioni si dimostrano però molto eloquenti nel promuovere la causa anche calandosi all’interno dei rispettivi punti di vista, al di là della loro stessa parziale contraddittorietà l’uno con l’altro e di retaggi che spesso di futurista hanno davvero poco. Ed è d’altronde assolutamente candido nella sua condanna, e nel suo chiamarsi fuori, rispetto alle rispettive forme di “integralismo”, compreso per le posizioni a lui più simpatiche, che possano rivelarsi di ostacolo al raggiungimento degli obiettivi descritti.

In questo, un importante ed immediato terreno comune tra me e l’autore è da sempre la convinta adesione al principio maoista, enunciato in questa forma a quanto pare da Deng Xiaoping, secondo cui non ha importanza di che colore sia il gatto, l’importante è che prenda il topo. 

Certo, personalmente non solo auspico, ma mi aspetto che una società multiplanetaria finisca inevitabilmente per essere una società postumana, e prima ancora postumanista. Di converso, con riguardo anche alle trasformazioni e sviluppi discussi nel libro tendo ad investire le mie speranze soprattutto nelle ambizioni di soggetti popolari almeno relativamente comunitari, sovrani ed identitari, o quanto meno nella inevitabile concorrenza darwiniana e multipolare creata dalla loro presenza che sta già rivitalizzando settori e ricerche ridotti ad un andamento glaciale sino a non troppi anni fa.

Ma mentre per esempio non ho mai provato particolare interesse per quella specie di costosissimo, inutile e banale ottovolante di cui dopo infiniti rinvii Virgin Galactic ha iniziato a onorare i biglietti, è interessante anche notare come nell’ambito dell’ecosistema politico-economico americano sia potuto maturare un fenomeno come Elon Musk. Di sicuro, per fermarci agli aspetti più rilevanti da un punto di vista transumanista e prometeico e al di là di quant’altro ci distingue, non ho nessuna indulgenza per la sua ostilità alle tecnologie in materia di life-extension o per la sua diffidenza millenarista nei confronti della ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale. Ma la sua parabola – che richiama un po’ la prima parte di quella del protagonista di The Man Who Fell on Earth di Walter Tevis, impersonato sul grande schermo da David Bowie –, così come i suoi principali interessi e progetti, disegnano con accuratezza impressionante il perimetro delle tecnologie cruciali per un’espansione al fuori del nostro pianeta.

L’aspetto più vistoso di tutto ciò è senza dubbio l’attività missilistica privata di SpaceX, che il 20 maggio 2020 è venuta a risolvere la perdita per nove anni da parte degli USA non della tecnologia per portare un uomo sulla Luna ma per portarlo… in orbita terrestre bassa (!). Attività che vede proprio in questi mesi la sperimentazione di un vettore composito, Starship + Super Heavy, con un carico utile destinato a raggiungere le 200 tonnellate e interamente riutilizzabile su un ciclo di tre giorni – con previsione perciò della capacità di una flotta di cinquanta veicoli di lanciare un milione di tonnellate in un anno, cioè secondo Musk quanto bastante a creare una città marziana autosufficiente. 

Ma se l’uragano di polvere, rocce e pezzi di cemento scatenato dal primo lancio di prova del razzo più grande mai creato e la prospettiva di cinque o seimila lanci all’anno con i suoi motori a metano probabilmente non sono universalmente apprezzate da chi lo portava sugli scudi come eroe del greenwashing, viene in conto per quello che qui ci interessa anche la geniale operazione “ecologista” consistita proprio nel creare per la prima volta una massa critica per i veicoli elettrici partendo da un prodotto di lusso e dall’influenza socioculturale delle persone in grado di esibire il relativo status symbol. Si può discutere se davvero l’impronta ecologica complessiva della produzione, ciclo di vita e smaltimento delle auto elettriche, che nel frattempo hanno contro ogni previsione pressoché eliminato i veicoli ibridi, sia davvero inferiore a quella di motori termici sempre più perfezionati; ma la vera portata della svolta provocata da Tesla consiste negli enormi investimenti che ciò ha provocato e consentito nel miglioramento delle batterie. Cioè, di ciò che è destinato a rivelarsi essenziale per la mobilità in scenari in cui, oltre eventualmente ad esserci poco o nulla in termini di ossigeno con cui alimentare la combustione, sono del tutto assenti i combustibili fossili, come è certamente il caso per la Luna e per Marte.

Sulla stessa linea, The Boring Company e la relativa capacità tecnologica ed industriale rappresenta un altro tassello di peso, e precisamente quello che ha a che fare con la creazione di tunnel e habitat sotterranei, che rappresentano la soluzione di gran lunga più conveniente in rapporto alle condizioni di tali due ambienti, tanto più se coniugata con infrastrutture di tipo Hyperloop capaci di risolvere anche il problema della impossibilità del trasporto aereo sulla superficie di un corpo celeste privo di atmosfera come la Luna. Come a loro volta le interfacce neurali su cui lavora Neuralink promettono di facilitare il controllo di dispositivi utili a lavorare all’esterno in ambienti ostili, che assumano la forma di esoscheletri o che vengano azionati remotamente dall’interno di un habitat. E questi dispositivi certamente comprendono robot umanoidi come Optimus, di nuovo prodotto da Tesla e destinato ad approfittare, quanto alla sua autonomia, del già citato miglioramento delle batterie per le esigenze dei veicoli elettrici, e quanto al suo funzionamento indipendente, quando necessario, dell’investimento in intelligenza artificiale della casa produttrice per la guida autonoma di livello quattro o cinque delle sue autovetture. Ed infine è possibile che il controllo combinato di Twitter e di xAI si riveli funzionale a mantenere aperti canali per la diffusione delle conoscenze, delle opinioni e delle informazioni utili non solo alle necessità locali di insediamenti interplanetari, ma anche alla promozione di queste cose tra gli ordinari abitanti del nostro pianeta.

Tutto ciò costituisce comunque e come minimo una sfida ed uno stimolo rispetto alle crescenti capacità cinesi che, coniugate con la tradizione della cosmonautica russa, dovrebbero nei programmi comuni alla CNSA e a Roscomos portare alla realizzazione intorno alla fine del decennio della International Lunar Research Station, stazione destinata tramite la suddetta Roscomos a diventare primo avamposto di una presenza permanente (anche) di una potenza europea sul nostro satellite. Cosa che, ancora più importante, è prevista anche come una tappa in future iniziative che avranno come destinazione Marte e gli asteroidi. In questo, provvidenziale si è rivelata l’esclusione americana a suo tempo della Cina dal novero dei paesi che hanno partecipato al programma relativo alla Stazione Spaziale Internazionale, che ha portato alla fine come noto alla creazione indipendente della stazione Tiangong, destinata a precorrere un approdo analogo in orbita lunare. 

A sua volta, l’India, benché ancora impegnata nello sviluppo di un veicolo orbitale nel quadro del programma Gaganyaan, si dichiara intenzionata a sviluppare una propria presenza autonoma e continuativa nell’orbita terrestre, ed è già attiva con le sue sonde nell’esplorazione di Marte e della Luna, dove per prima la Chandrayaan-1 ha confermato la presenza di acqua. Mentre l’Iran e la Corea del Nord, malgrado gli estremi embarghi commerciali e tecnologici cui sono soggetti tali paesi da parte del sistema occidentale, a loro volta stanno muovendo i primi passi verso la capacità di accedere allo spazio esterno, spinti dalle consuete motivazioni iniziali inerenti al prestigio internazionale, alle telecomunicazioni e sorveglianza satellitare, ed alla credibilità militare delle rispettive capacità missilistiche. E di nuovo Iran, Sudafrica e UAE stanno intensificando la loro collaborazione con Roscosmos ai fini di una partecipazione immediata a progetti spaziali comuni e della messa in orbita di satelliti propri.

Ma persino la… vecchia NASA, a lungo avviata a trasformarsi in una costosa ed autoreferenziale burocrazia volta alla produzione di PR finalizzate alla propria sopravvivenza e alla produzione di programmi che ogni nuova presidenza americana aveva il vezzo di abolire a favore dei propri, finisce per svolgere negli sviluppi attuali un ruolo cruciale, innanzitutto come committente strategico di SpaceX e dei suoi concorrenti privati come Blue Origin, ma ancora di più con il progetto Artemis, che ha visto tra l’altro il recupero con lo Space Launch System della tecnologia necessaria alla creazione di grandi vettori. Se anche la ripetizione del modello completamente expendable del Saturno V, che già von Braun considerava un ripiego reso necessario dall’esigenza impostagli di “fare in fretta” nella competizione con l’Unione Sovietica, può sembrare futile rispetto alla portata superiore ed alla completa riutilizzabilità previsti dal progetto Starship, contribuisce comunque a mantenere e rilanciare una industria ed una competenza spaziale largamente minacciata dopo il ritiro degli shuttle.

Tutto ciò deve indurci a ritenere che sia inevitabile il percorso ipotizzato, e promosso, da Prisco nel presente saggio, destinato nei comuni auspici a condurci in un modo o nell’altro sempre più lontano, fino ad arrivare ogni volta, sulle orme dell’Ulisse dantesco “dove nessun uomo è mai giunto prima”? Per niente. 

Altrettanto e probabilmente più realistica è la rappresentazione che il film Interstellar di Christopher Nolan ci dà di un mondo esaurito, decadente, disindustrializzato in cui una decrescita ben poco felice è preludio di una estinzione letterale e imminente della specie, e in cui guarda caso le teorie sulla simulazione delle missioni Apollo – che hanno nel momento in cui scriviamo un ritorno di fiamma sui social network e in generale nella lunatic fringe – sono diventate verità ufficiale. Proprio come accade oggi, non perché sia fondamentale per chi le propone una verità storica destinata ad allontanarsi sempre più nel tempo – e su cui ammettendo gradi arbitrari di implausibilità nulla vieta di avere dubbi, come su qualsiasi altra cosa –, ma perché negare che gli sbarchi lunari e la corsa allo spazio siano mai avvenuti, o persino che siano possibili, viene percepito come il presupposto per contrastare la tentazione di riprendere tale cammino, ciò che è stato fatto potendo evidentemente essere ripetuto, e magari portato ad ulteriori sviluppi ben più ambiziosi.

Rispetto a questi due futuri alternativi, i segnali positivi e i progetti e le aspirazioni che malgrado tutto si manifestano, e che sono più estesamente illustrati da Prisco, rappresentano piuttosto l’eterno ritorno di qualcosa che culture, interessi e meccanismi dominanti nella nostra società tenderebbero semmai ad eliminare.

Del resto, nella visione tragica dell’uomo e della storia che faccio mia, ogni grande impresa, ogni rivoluzione, ogni cambio di paradigma, per quanto possa a posteriori apparire un prodotto delle circostanza – e in un certo senso lo sia – rappresenta non il prodotto di un processo lineare e necessitato ma il frutto eccezionale di sforzi titanici e svolte irripetibili che sono giunti ad affermarsi contro ogni verosimiglianza sulla base di una volontà ad essi tesa e che è stata capace di realizzare l’“impossibile”.

Tale volontà collettiva a sua volta non può che essere espressione di una scelta fondata su un sistema di valori e di ideali condivisi che si affermano contro la resistenza di ciò che ad essi si oppone sulla base di una loro penetrazione sociale e culturale.

Per questo, i libri come quello che vi accingete a leggere danno, a mio sommesso avviso, un contributo altrettanto importante alla realizzazione del sogno di Tsiolkovsky e von Braun quanto la progettazione di un nuovo propulsore. Prima e ancora più essenziale del lavoro di chi ragiona sul come, vi è la decisione e la presa di coscienza che coinvolge ognuno di noi sul se e sul perché.

Stefano Vaj

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